La guerra
era appena terminata e l'Italia tutta da ricostruire, proprio come
oggi. Il fungo atomico aveva appena mietuto le sue vittime e ne
era ancora vivo l'orrore, ma tutti sapevano che l'energia contenuta
in quel fungo, se usata nel giusto modo, poteva essere fonte di
benessere.
Qualcuno decise che era opportuno migliorare le conoscenze sull'uso
dell'energia nucleare a scopi pacifici raccogliendo documentazione
e compiendo studi sull'argomento: fu così che nacque il Centro,
una piccola entità finanziata da industrie dell'epoca e costituita
da cervelli, ricercatori in erba e garzoni.
Erano tre categorie di persone ben distinte, ma tutte insieme formavano
una grande famiglia, un miscuglio armonico e perfettamente omogeneo
che operava in condizioni disagiate ma con volontà, impegno
ed anche allegria.
Oggi, di ciò che accadde in quegli anni, rimangono i documenti
ufficiali e tante storie tramandate oralmente che non si capisce
bene se coincidano con la realtà o se, a volte, sconfinino
nella fantasia.
Il Centro divenne adulto e trovò, all'inizio degli anni 60,
una sua collocazione dignitosa alle porte di Milano.
Adagiato fra campi di mais e frumento e circondato da acque che
cominciavano a puzzare di progresso e di benessere, il Centro era
piacevolmente carezzato dal sole nei mesi estivi e costantemente
avvolto nella nebbia in quelli invernali.
Ben recintato e protetto dai pericoli esterni si sviluppava in sei
palazzine parallele collegate tra loro da un corridoio centrale
che le tagliava esattamente a metà: tutte le palazzine che
ospitavano uffici e laboratori erano a piano terra mentre quella
della direzione era una costruzione a due piani.
Al secondo piano trovava spazio l’ufficio del nuovo direttore,
da tutti denominato "Il sole", causa lo splendore abbagliante
che irradiava ad ogni suo passaggio e per il quale i dipendenti
del Centro erano costretti ad abbassare lo sguardo quando lo incrociavano
nei corridoi.
Dal suo ufficio osservava, di tanto in tanto e forse con rimpianto,
l'ultima palazzina collocata nella parte occidentale, dalla quale
si era staccato per inerpicarsi su percorsi sempre più difficili
e impegnativi.
Tutte le mattine, un esercito di circa 250 persone, quanti erano
i dipendenti di allora, varcava l'ingresso del Centro davanti agli
occhi attenti e vigili delle guardie che, dopo aver consegnato ad
ognuno la propria targhetta di riconoscimento, auguravano il buon
giorno; alla sera si ripeteva l'operazione in senso opposto.
Di notte il Centro, anche se in mezzo alla campagna, non veniva
abbandonato a se stesso ma era custodito da guardie accompagnate
da cani ben addestrati, che percorrevano ininterrottamente uffici,
laboratori e corridoi.
Ancora oggi si tenta invano di stabilire se, nei loro giri notturni,
mostrassero più coraggio le guardie o i cani.
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